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Ri-Brandy-Amoci

Vicende e peripezìe di un distillato italiano, fra luci e ombre che hanno seguito i cicli storici della nostra società e che, con accorgimenti e buona volontà, potrebbero evolvere in un nuovo corso.

di Fulvio Piccinino

La ruota della storia gira, proponendoci ciclicamente prodotti dopo anni di loro oblio. Un fiume di corsi e ricorsi di cui spesso non si riescono a comprendere fino in fondo le dinamiche. Nel caso di brandy, armagnac e cognac forse non si è proprio trattato di abbandono, visto che il blasone dei prodotti ha ben resistito all’interno dei salotti ‘bene’ e sugli scaffali dei bar più esclusivi, forti di uno zoccolo duro di consumatori poco sensibili alle sirene di rum e whisky, i principali competitor nel settore degli ambrati. È indubbio che vi siano stati alti e bassi ed i principali attacchi non sono arrivati da Caraibi e Scozia, ma dal crescente seguito dei distillati bianchi delle giovani leve. Ma andiamo con ordine.

Dopo i devasti della fillossera, i distillati da vino vivono una nuova primavera nei primi decenni del 900.
Romanzi, racconti, giornali italiani ci confermano come i protagonisti bevessero esclusivamente distillati da vino, offerto come prodotto di benvenuto o nel dopo cena. Essendoci ancora la possibilità di chiamarlo cognac, non sappiamo se si trattasse di prodotti di scuola italiana o francesi. Il whisky, come ci confermano anche i manuali dei liquoristi del medesimo periodo, non riscuoteva consensi, ed il suo successo nel Dopoguerra stupisce ancora di più per la rapidità del processo. Con l’arrivo del regime, almeno in Italia si dovette sopperire all’impossibilità di reperirlo sul mercato. I più fortunati ed abbienti se lo procurarono alla borsa nera, mentre ufficialmente le aziende italiane crearono, seguendo il consiglio del poeta soldato D’Annunzio, l’Arzente, unione delle parole arzillo ed acqua ardente. Nacquero anche i Tre Stelle, volgari imitazioni dove con alcol da cereali o da melasso, unito a spezie e caramello, si cercò di imitare gusto ed invecchiamento del cognac. Questo processo di imitazione è ben presente durante da metà Ottocento e prosegue fino alle soglie del Secondo conflitto mondiale, a testimoniare il successo commerciale del prodotto.

Con l’arrivo della guerra finisce tutto: mancando il cibo, i digestivi diventano inutili. E se ci si deve ubriacare per dimenticare gli stenti, di sicuro non si utilizza il costoso distillato da vino, ma la più umile grappa.
Ben presto, però, tutto è pronto a ricominciare, con i cognac (è infatti ancora possibile usare questa parola per definire anche la produzione italiana) ad incarnare ancora una volta il ruolo di prodotti ricercati e d’elite. Nel 1951 questa possibilità cessa e nel decennio successivo il neonato brandy italiano ritorna ad egemonizzare i consumi. Si fanno grossi investimenti pubblicitari per dare uguale dignità al prodotto italiano ed i risultati si vedono. I cognac francesi riducono i loro spazi, ed i prodotti italiani si ispirano chiaramente a quelle atmosfere blasonate.

Il brandy diventa così il simbolo di un benessere ritrovato dopo anni di stenti all’indomani del conflitto che ha visto l’Italia uscire distrutta. la voglia di lusso e benessere finisce per incarnarsi in queste pregiate bottiglie: il dopo pranzo domenicale, un vero rito pagano, dove si mangiava ben oltre l’appetito, per dimenticare fame e privazioni, ha bisogno di un degno proseguimento. Amari e distillati da vino si dividono questo compito. I cesti natalizi delle principali distillerie degli anni Cinquanta, che tutti abbiamo imparato a conoscere grazie a Carosello, avevano come prodotto di punta il brandy. All’interno di queste regalie, lo accompagnaano il gin ed altri liquori come il Cherry Brandy e Il Triple sec.

Arrivano a seguire gli aiuti alla distillazione da parte dello Stato, insieme ad una produzione di vino importante che creano i presupposti per avere prodotti altamente qualitativi a prezzi assolutamente ragionevoli. Il brandy vive così il suo picco massimo di diffusione. Con le medesime lire di un mediocre cognac si possono avere ottimi brandy e l’ottimo rapporto qualità prezzo permette al brandy italiano di fare passi da gigante. Solo il whisky era in grado di attentare al patrimonio di esclusività e selettività del brandy italiano, mentre la grappa stava muovendo i primi passi verso la qualità.

Come tutti ben sappiamo, però, nulla è per sempre.
La cessazione di aiuti e sostegni economici ed il contemporaneo cambio di abitudini sociali ed alimentari fecero il vuoto fra le fila dei distillatori. L’avvento delle discoteche e dei lounge ispirati a culture esotiche fecero anch’essi girare il vento. Non c’era, in definitiva, più spazio per i prodotti da meditazione: i nuovi luoghi di aggregazione imponevano facili dissetanti aciduli in alti bicchieri capienti in luogo dei poco giovanili ballon o delle coppe cocktail. Molte aziende chiusero, o cambiarono padrone, ma quasi tutte cessarono la produzione di brandy, mantenendo pochi prodotti in assortimento.
Solo alcune resistettero, ovvero quelle che avevano puntato realmente sul brandy per tradizione e cultura, sopravvivendo sul mercato che, per quanto ridotto, era consolidato da decenni di vendite. Il brandy rimase relegato a poche situazioni di consumo, questa volta assolutamente elitario, per pochi affezionati, oppure con prodotti di medio basso prezzo, da miscelazione. Il caffè corretto, la miscelazione di qualche classico, in luogo del cognac, come Alexander e Stinger,  e qualche sporadica consumazione liscia di qualche affezionato ed attempato consumatore tennero la bottiglia del brandy sullo scaffale del bar, ma tutto ciò compromise la percezione qualitativa del prodotto.

Oggi sembra affacciarsi all’orizzonte una nuova opportunità per il nostro brandy, il cui blasone sembra essere piuttosto appannato, specie Oltreoceano.
Poche case infatti hanno continuato a produrre invecchiamenti lunghi e certificati per controbattere, si può dire in maniera molto labile, allo strapotere francese – ed in seconda battuta spagnolo.
La vera novità, però, è che c’è voglia di Italia nel mondo: sì, proprio quel Belpaese che noi biasimiamo, spesso a ragione per politiche agroalimentari suicide, con una industry facile ad infiammarsi per qualunque prodotto straniero. Se riusciremo a trasferire la tradizione e la qualità dei nostri prodotti protetti da denominazione di origine al brandy, faremo sicuramente un grande lavoro. Un forte sillogismo dove Italia e qualità siano gli assi portanti, per poter titolare il nostro brandy come appartenente a questo gruppo.
Citando un famoso film direi che “Si può fare”.

Ci sarà da investire in indagini di mercato, da pianificare eventi, rimettere in pista accademie del brandy abbandonate nel tempo, organizzare degustazioni e masterclass mettendo da parte la nostra innata capacità di vivere alla giornata e dalla tentazione dell’incasso immediato. Ancora una volta si tratterà di fare gruppo, cosa che risulterebbe probabilmente più facile, visto l’esiguo numero di produttori rispetto alla grappa o al vermouth. Il treno, ci dicono alcuni segnali di mercato, sta passando, e dobbiamo correre per prenderlo. Se poi non succederà, ci potremo consolare pensando che nel cognac comunque un pezzo d’Italia ci sia, visto che in fin dei conti l’Ugli Blanc, la materia prima del pregiato distillato della Charente, altri non è che il nostro Trebbiano.